Romanzo autobiografico e, allo stesso tempo, racconto di formazione, nel quale l’autrice, alle prese con la sua prima esperienza di scrittura, fin dalle prime pagine, afferma di non volere «la verità», ma solo «un po’ di ordine» (p. 3), così come sostiene rivolgendosi costantemente a lettori interpellati al fine di stabilire un dialogo immaginario e quasi drammaturgico. La vicenda narrata si snoda, in un costante intreccio tra ricostruzione, sovrapposizione di immagini e ricordi alterati, attraverso la rievocazione della bambina Sapienza, allevata in una particolarissima famiglia, nella Catania degli anni Venti del Novecento sull’onda montante del regime fascista. Ultima di sette figli, “Iuzza” è una bambina guerresca e pacifica, aggressiva e mite; una creatura che vive un suo mondo, qual era il quartiere popolare catanese di San Berillo. Senza nessuna autocommiserazione piange con lacrime di rabbia, respira l’aspra bellezza siciliana e vede i suoi genitori per quello che sono: una madre sindacalista, tenace nel distinguersi da tutte le altre «donnette», un padre siciliano dalla testa ai piedi, dedito alla professione di avvocato in difesa degli ultimi. Per rimettere ordine tra le bugie dei ricordi, recupera dalla memoria frammenti di sé nei quali la sua formazione culturale avviene lontano dalla scuola, da lei stessa rievocata come un «buco marcio, dove insegnano solo bugie» (p. 39) e da dove, peraltro, fu allontanata dagli stessi genitori a causa delle continue vessazioni subite per essere figlia di antifascisti. La sua educazione avviene dunque in casa in una sorta di “controinformazione” quotidiana affidata ai fratelli più grandi e che passa attraverso la lettura dei grandi classici della letteratura mondiale e russa, da Dostoevskij a Tolstoj e, anche, attraverso gli insegnamenti di quel professore Jsaya, che le dà lezioni in privato e che «aveva le labbra strette come se avesse sempre la puzza sotto il naso» (p. 8).