L’intero racconto prende corpo attraverso l’artificio stilistico di una lettera che Ada Marchini, una maestra elementare, indirizza al Sindaco del paese nel corso di una nottata di intime riflessioni. Nella prima parte della missiva, la protagonista si abbandona al ricordo degli anni giovanili, animati dal desiderio di conoscenza, dall’impegno per la comunità e dalla nascita della vocazione per l’insegnamento: «Io ho scelto di fare la maestra per convincimento. Mi ci sono buttata in questo lavoro, perché questa è un’attività, io lo so bene, che bisogna fare con tutta l’anima; non si può fare a metà» (p. 82). Ed infatti Ada vive le prime esperienze scolastiche con grande determinazione e dedizione, nonostante si trovi ad affrontare tante difficoltà, come la gestione di centoventicinque alunni in una classe con appena diciassette banchi sgangherati, una stufa che d’inverno produce più fumo che calore, i ragazzi malvestiti e affamati, e senta il peso delle disuguaglianze sociali. «E mi dicevo che questi bambini avevano diritto a una vita diversa e che il tentativo di cambiare il mondo dev’essere audace; e mai negligente: perché niente diventa realtà, di ciò che non è stato prima intensamente e attentamente pensato (pp. 82-83)». Ma la “guerra” di Ada è destinata a una sconfitta. Le maldicenze e il rifiuto di adeguarsi per non perdere il posto, il disimpegno del Municipio nei confronti della realtà scolastica, il ritrovarsi incinta e abbandonata da Gostino, l’uomo cha ama, non fanno che alimentare il fallimento e un senso di sopraffazione. Così Ada conclude la sua lettera: «troppi nemici con cui combattere. Mi sento logorata, dissolta in una infinita quantità di frasi di una mortale banalità. Non dirò più oltre. Mi firmo per l’ultima volta» (p. 88).
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Roma TrE-Press - In collaborazione con il Museo della Scuola e dell’Educazione “Mauro Laeng” (MuSEd)
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2785-4485
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